28 luglio 2018. Km 0 – Tot. 14620
La nostra Toyota Hilux è ferma a Vladivostok, il capodelegazione Guido è a portare la Torino-Pechino in Corea del Nord e, mentre attendiamo dettagliati resoconti di questa interessante esperienza, riprendiamo la rubrica “L’Italia ai mondiali siamo noi”. La Coppa del mondo di calcio è in archivio da un pezzo, ma noi continuiamo ad intervistare italiani che vivono lungo il nostro percorso per sentire le loro storie. Qui quella di Mark Bernardini, con cui ci eravamo incontrati alcune settimane fa durante la tappa moscovita del viaggio.
La tua storia familiare è quella di uno stretto legame tra Italia e Russia.
Sì, mio padre era italiano e mia madre russa. Lui, Dino Bernardini, era il figlio di Timoteo (detto Angelino), classe 1901, che era stato uno dei liberatori di Fiume dalla marmaglia dannunziana e poi uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia a Genzano nel 1921. Dopo l’instaurazione del regime fascista, nel 1929, fu condannato al confino fino al 1932, mentre durante la guerra fu catturato dai nazisti altoatesini della Banda Koch, che lo segregarono in una capannetta dove poteva stare solo rannicchiato e dalla quale di tanto in tanto lo tiravano fuori per torturarlo e spingerlo a parlare. Dopo sei mesi, temendo di non poter più resistere a tacere, mio nonno utilizzò un pezzo di latta che aveva trovato scavando con le unghie, si tagliò le vene dei polsi e delle caviglie. Portato in ospedale, fu salvato da un medico che poi lo fece fuggire, facendo credere ai nazisti che fosse morto.
Subito dopo il rientro dal confino ebbe il terzo figlio, mio padre, a cui nel 1956 fu proposto di andare a studiare all’Università di Mosca. Qui conobbe mia madre, figlia di un ebreo russo di Ochakovo, nell’allora Governatorato di Cherson, Aleksandr Pikman, volontario dell’Armata Rossa durante la Guerra civile, che ruppe i ponti con la propria famiglia di origine per sposare una ragazza non ebrea, mia nonna Zinaida, con cui rimase fino alla morte di lui, nel 1984.
Nel 1960 mio padre iniziò a lavorare presso la rivista “Problemi della pace e del socialismo” a Praga, nella Cecoslovacchia socialista, dove io nacqui nel 1962.
Subito dopo la tua famiglia si trasferì a Roma.
Sì, nel 1963. Vissi in questa città fino al 1968 parlando italiano fuori di casa ma solo ed esclusivamente russo dentro casa, per precisa scelta dei miei genitori. In questo modo ebbi la possibilità di diventare da subito perfettamente bilingue. Nel 1968 i miei genitori si separarono e mia madre rientrò in Russia con me, dapprima dai nonni a Ul’janovsk, la città natale di Lenin, poi a Mosca, dove nel 1969 lei iniziò a lavorare nella redazione italiana della casa editrice “Progress”, e tra le altre cose tradusse tutte le fiabe di Gianni Rodari in lingua russa.
Andavo quindi a scuola a Mosca e poi trascorrevo tutte le estati da mio padre in Italia. I primi tempi avevo un po’ di problemi ad abituarmi a passare dall’italiano al russo e viceversa ad ogni spostamento, poi piano piano le due lingue si sono stabilizzate.
Dal 1973, a undici anni, iniziai a fare il contrario: studiavo in Italia e venivo in Russia ogni estate. Dal 1978 ho iniziato ad accompagnare gli studi con le prime traduzioni scritte e dal 1979 a seguire le prime delegazioni, facendo da interprete per esempio a Pajetta, Amendola, Berlinguer e molti altri. Sempre nel 1979, nella sezione PCI Esquilino, subimmo un attentato fascista a colpi di pistola e bombe a mano: rimanemmo feriti in 27, io fui colpito da sette schegge di granata, tre delle quali le porto tuttora in corpo.
Nonostante questo sei rimasto ancora a lungo nel nostro Paese.
Sì, nel 1986 mi trasferii a Milano per lavorare con Interexpo, un’azienda che organizzava fiere collettive italiane in Unione Sovietica, gestita da Luigi Remigio, un ex collega di mio padre ai tempi di Praga. Poi ho lavorato a Reggio Emilia, ancora a Milano, a Montemurlo. Alla fine decisi di tornare nel capoluogo lombardo e mettermi per conto mio, tornando a fare l’interprete di simultanea. In quella fase storica, con l’arrivo di Berlusconi al potere, cominciavo a non riconoscere più quell’Italia dove nel 1973 avevo scelto di vivere. In più pubblicai un libro che raccoglieva la prima satira circolante in rete su Berlusconi, che mi portò un’improvvisa notorietà ma anche moltissimi problemi, dalla perdita di tutti i clienti fino allo sfratto con un sotterfugio.
Senza lavoro e senza casa, mi trovai in una situazione molto difficile e mi arrangiai, per qualche mese, facendo anche il cantante d’opera come corista. Poi l’occasione di lasciare l’Italia mi fu data dalla proposta da parte di Armando Cossutta di un contratto di sei mesi come consulente del gruppo del GUE (Sinistra unita europea) al Parlamento Europeo, a Bruxelles. Nel 2002, scaduto il contratto, decisi di trasferirmi a Mosca.
Ed è iniziata una nuova vita.
Sì, nel 2003, condividendo con lei la cabina di traduzione simultanea, conobbi la mia futura moglie, che sposai l’anno successivo. Nel frattempo abbiamo avuto una figlia, Vera, di 14 anni, e un figlio, Gleb, di otto. Sto benissimo qui a Mosca con la mia famiglia e non ho davvero più nessuna ragione per pensare di tornare in Italia, tanto più dopo che nell’ottobre 2017 è morto mio padre, con cui avevo mantenuto un rapporto molto forte e profondo, e che pochi giorni fa è scomparsa anche la sua vedova, con cui viveva dal 1975.
Tra le altre cose, sei anche il gestore di un gruppo Facebook di grande successo.
Nel 2008 avevo creato un gruppo, “Italiani di Russia”, per dare la possibilità di mettersi in contatto tra loro ai pochi italiani che stavano nella Federazione Russa. Il gruppo è cresciuto ben al di là degli italiani che vivono in Russia e nel 2014 c’è stato un momento di rottura con l’inizio della guerra nel Donbass. In quella fase si sono aggiunti molti altri italiani che volevano sapere come stavano le cose, nonché russi che conoscevano l’italiano, sia residenti in Russia che in Italia, e siamo arrivati a circa 6700 partecipanti. Siamo diventati una sorta di organo di informazione, pur dovendo convivere con i periodici “ban” di Facebook.