Giorno 64 – Nella steppa kazaka

18 agosto 2018, Semej-Usharal (575 km – tot. 22.618)

La sveglia e la conseguente colazione avvengono più tardi del solito per recuperare la stanchezza della giornata precedente. Curiosamente in sala da pranzo ci sono gli stessi tre individui che avevamo lasciato a tarda notte della sera precedente mentre bevevano più bottiglie di vodka. Il tavolo dove sono posizionati è lo stesso e l’entusiasmo con il quale uno di loro ci ricorda che la Juventus con Cristiano Ronaldo sarà imbattibile ci fa dedurre che non abbiano ancora dormito. Prima di lasciare Semej ci occupiamo di cambiare denaro e di procurarci una sim card kazaka. L’idea iniziale di lavare la macchina viene rinviata a possibile attività contemporanea al pranzo. Semej, in russo Semipalatynsk, è stata per quarant’anni una città chiusa agli stranieri. Non lontano sorgeva il poligono nucleare dove l’Unione Sovietica sperimentava il proprio arsenale. Si racconta che nei primi anni gli scoppi avvenivano in superficie contaminando la zona circostante e causando numerosi problemi alla salute di uomini e animali. L’attività del poligono è cessata nel 1989, ma la fama di questa città non è lontana da quella di Chernobyl.

Appena imbocchiamo la strada per Almaty, e per il sud della nazione, siamo fermati da una pattuglia della polizia per un normale controllo. Come già accaduto in passato riemerge il tormentone legato al Commissario Corrado Cattani e la fortunata serie televisiva “La Piovra”. I simpatici poliziotti citano molti dei personaggi della fiction e chiedono se Michele Placido sia ancora vivo. Interessante il fatto che abbiano collegato la tragedia del ponte di Genova alla corruzione negli appalti legata alla mafia. Naturalmente non facciamo nostre queste opinioni, ma visto che arrivano dalla polizia kazaka, può darsi che loro sappiano qualcosa in più…

La prima parte della strada di oggi non è pessima, un asfalto non sempre ottimo ma senza buche o avvallamenti. Attorno a noi la steppa kazaka che caratterizzerà la nostra giornata. Oltre ai pochi e malmessi villaggi, possiamo ammirare numerosi cimiteri islamici con tombe di famiglia che sembrano palazzi in stile barocco e vecchi sovkoz abbandonati. In una deviazione stradale attraversiamo un piccolo villaggio abitato ma in completa decadenza. All’inizio del paesino, un cartellone con il Presidente Nuzarbajev ci ricorda il “Piano 2050” che porterà prosperità all’intero Kazakistan. Per ora basterebbe un poco di asfalto per non uccidere di polvere gli abitanti di questo gruppo di case.

Dopo la pausa pranzo avvenuta in un luogo sperduto e senza nome, riprendiamo il viaggio con la strada in netto peggioramento. Arrivando dalle piste mongole tutto sommato l’asfalto deforme kazako ci sembra una cosa bella. Alle sei del pomeriggio dobbiamo decidere se fermarci o percorrere altri duecento chilometri prima della prossima città dove poter alloggiare. Andiamo avanti con la consapevolezza che finiremo di viaggiare dopo il tramonto. La luce nelle ultime ore del giorno, qui nella steppa, è molto bella. Purtroppo con la scomparsa del sole la strada peggiora notevolmente e dopo aver centrato alcune buche senza danni apparenti, siamo costretti a scendere ad una andatura attorno ai trenta orari. Tanto per cambiare gli ultimi chilometri diventano un calvario a cui fatichiamo ad abituarci. Finalmente arriviamo ad Usharal, pochi chilometri fuori dal nostro itinerario. Qui, scovato via internet, c’è il mediocre hotel Kabanbay che ci ospiterà per la notte. Nel parcheggio del ristorante a fianco della struttura ci sono una Marbella e una Fiat Uno con targa italiana con tre italiani e uno svizzero ticinese. Si tratta di due uomini, Fabio e Marco, e due donne, Giuditta e Paola, impegnati nel Mongol Rally, con cui abbiamo la possibilità di trascorrere la serata scambiando finalmente due chiacchiere nella lingua di Dante. Vengono da Almaty e quindi siamo reciprocamente utili per scambiarci informazioni sulle rispettive strade da fare. Più tardi del solito saliamo nelle nostra camere per dormire e ricaricare le pile per la giornata di domani.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– Nel 2008 in ogni città si potevano osservare cartelli del “Piano 2030”, un ambizioso progetto del presidente kazako Nursultan Nazarbajev destinato a trasformare il Kazakistan in un luogo ricco e prosperoso entro quell’anno. Dieci anni dopo gli stessi cartelli parlano di “Piano 2050”!

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 63 – Discesa a valle

17 agosto 2018, Karakol-Semej (884 km – tot. 22.043)

La temperatura mattutina quando andiamo ad usare i servizi igenici nel campo dietro casa è attorno ai sei gradi. Per fortuna l’acqua è calda e assieme alla piacevole colazione ci permette di iniziare con la marcia giusta la giornata. Se vogliamo uscire dalla Russia entro sera è necessario trascorrere molte ore per strada. La P-256 “Chujskij Trakt” oggi ci offre un panorama meno spettacolare ma senz’altro vivace. Non mancano le strutture ricettive, i locali dove mangiare e le tante bancarelle di prodotti tipici dell’Altaj. Contrariamente ad altre zone della Russia troviamo numerosi cartelli in lingua inglese che indicano i luoghi di interesse turistico.

Arrivati a Gorno-Altajsk, capoluogo della Repubblica degli Altaj, possiamo finalmente fare un nuovo rifornimento di metano in una stazione Gazprom. Siamo accolti con simpatia da Aleksej, l’addetto al rifornimento, che chiede di fare foto assieme. Come è risaputo, Bruno abitualmente non può guidare, e in questa giornata Guido accusa la stanchezza accumulata finora. Il poco sonno e la tensione delle giornate precedenti emergono tutti assieme e solo un bel pranzo liberatorio, assieme alla notizia che la dogana di oggi non chiude di notte, riescono a far recuperare energie fisiche e morali. Ancora altri chilometri ed eccoci a Barnaul, capoluogo del Territorio degli Altaj, un soggetto federale diverso dalla Repubblica citata in precedenza. Ormai siamo in pianura e le temperature superano abbondantemente i trenta gradi, candidando la giornata odierna al record di escursione termica tra la mattina e il pomeriggio. Barnaul appare come una città molto vivace, attraversata dall’Ob come la vicina Novosibirsk. Qui facciamo un secondo rifornimento di metano presso un’altra stazione Gazprom. Naturalmente non ci sono problemi di autonomia, ma decidiamo di rabboccare il prezioso gas e di fare visita anche a questa stazione di rifornimento. Da Gorno-Altajsk avevano avvisato del nostro arrivo e quindi troviamo Anna, Igor e il responsabile Michail pronti ad accoglierci e a farci la consueta carrellata di fotografie.

Nel traffico cittadino perdiamo quasi un’ora che cerchiamo di recuparare aumentando il ritmo nei poco oltre trecento chilometri che ci separano dalla frontiera con il Kazakistan. Le montagne restano solo un ricordo dato che siamo circondati da grano e girasoli.
La dogana di Veselojarsk appare davvero malmessa e vecchia. Nella copertura del padiglione del controllo auto c’è una scritta che definisce questo luogo la “porta dell’Asia”. La fatiscenza della struttura non è giustificabile visto che Russia e Kazakistan sono separati solo dalla fine del 1991 e quindi le strutture non dovrebbero apparire in queste condizioni. In ogni caso l’organizzazione è buona e tutto sommato in meno di tre ore siamo fuori dalla Russia. Durante l’attesa, bloccati per circa mezz’ora tra le due dogane, ci è capitato di parlare con alcuni russi in coda che elargivano parole poco carine nei confronti di Eltsin e Gorbaciov, corresponsabili dello sfascio dell’Unione Sovietica e della nascita di questa e altre centinaia di dogane. Di fatto un tempo questa frontiera non esisteva e passare da una parte all’altra era come andare dalla Toscana all’Umbria.

Ormai è notte quando comincia il viaggio sulla strada kazaka, intervallato da una lunga sosta per fare l’assicurazione auto obbligatoria, con il funzionario che sbaglia i dati anagrafici di Guido e dell’auto almeno tre volte. Il primo albergo dovrebbe essere a circa ottanta chilometri dal posto di confine. La strada è decente, senza buche ma con difficoltà nella notte a stabilire i limiti della carreggiata, oltre i soliti attraversamenti di animali stavolta di piccola taglia. I pochi villaggi che attraversiamo non hanno alcuna forma di illuminazione pubblica. L’albergo segnalato è pessimo, decadente e sporco e a questo punto facciamo altri trenta chilometri alla ricerca di qualcosa di migliore a Semej, più conosciuta con il nome russo di Semipalatynsk. Qui dopo alcuni minuti di ricerca troviamo il semilussuoso “Golden Plaza”, che oltre la prevista fornitura di una stanza per dodici ore ci permette di cenare a mezzanotte inoltrata.

Cosa è cambiato in dieci anni?

– Incredibilmente il prezzo delle assicurazioni temporanee per le auto in Russia e in Kazakistan è diminuito. In parte questo è dovuto alla svalutazione delle due monete, ma complessivamente i prezzi sono davvero molto più bassi

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 62 – Un giorno in dogana

Olgij-Karakol (km. 437) – Tot. 21.159

Il vetusto e decadente hotel Duman offre una colazione modesta, ma che si rivelerà molto importante nel corso della giornata. Finiamo i tugrik mongoli con un pieno di gasolio a prezzo conveniente e partiamo verso il confine russo-mongolo. I primi settanta chilometri sono asfaltati e gli ultimi trenta sono pessimi. Dobbiamo essere prudenti vista l’assenza della ruota di scorta. Arriviamo al piccolissimo paese di Ulaan Baishint qualche minuto prima dell’apertura della dogana prevista per le 9.30. Siamo la quarta auto e c’è cauto ottimismo sulle tempistiche. In effetti il controllo doganale sul lato mongolo avviene in tempi rapidi nonostante sia ostacolato da una mandria di mucche che non vuole liberare il piazzale della postazione doganale. Da qui si percorrono altri nove chilometri di pista per arrivare ad un cancello chiuso dove un soldato russo è di guardia. Questo è il vero e proprio punto di confine e quando si accumulano due o tre veicoli viene aperto il cancello. Siamo in altura: anche se ignoriamo l’esatta altitudine, ci troviamo oltre i duemila metri. Nella parte russa ricomincia l’asfalto e dopo poco meno di venti chilometri arriviamo al punto di controllo russo, presso il villaggio di Tashanta, dove trascorreremo piacevolmente circa quattro ore. Le ispezioni passano veloci, il problema dove la fila si blocca è solamente burocratico. Gli addetti ai documenti relativi alle auto non russe lavorano molto lentamente. I russi, che non hanno bisogno di questo documento, passano senza problemi. Noi, gli altri europei e i mongoli siamo in attesa del nostro turno. Finalmente nel primo pomeriggio arriva una seconda addetta a questa procedura che decide deliberatamente di occuparsi dei quattro mezzi europei. Oltre a noi ci sono: il tedesco Jonas con la moglie e la bimba di dieci mesi con cui avevamo trascorso del tempo a Krasnojarsk un mese fa, Vlad il motociclista polacco entrato con noi in Mongolia dal confine di Khiakta e due coniugi francesi, Caroline e Christian, con un camion tipo quelli della Parigi-Dakar. Molti europei sono in fila anche sull’altro lato, per entrare in Mongolia, e sono quasi tutti equipaggi del Mongol Rally. Tra i tanti notiamo una panda italiana alla quale forniamo indicazioni sulle problematiche stradali in Mongolia. Uno dopo l’altro riusciamo a passare il confine e dopo circa trenta chilometri, presso il paesone di Kos Agac, ci fermiamo tutti senza esserci accordati nello stesso kafè per un frugale e necessario pasto. Seguono le foto commemorative dell’evento.

Per la Toyota Hilux incombe l’esigenza di riparare la gomma forata e tentare il lavaggio del veicolo ormai irriconoscibile. In dogana abbiamo dovuto almeno pulire dalla polvere le targhe e i fari. A tal proposito è molto interessante il fatto che il furgone di Jonas, nonostante abbia perso la targa, sia passato in dogana senza alcun problema. Sempre a Kos Agac troviamo uno “shinomontazh” (gommista) che si occupa di accomodare la ruota e di rimetterla al proprio posto. Il prezzo è davvero economico al punto che converrebbe venire qui a fare questo tipo di lavori!

Siamo sorpresi dalla bellezza della Repubblica degli Altaj, di cui in effetti avevamo sentito parlare molto bene da amici russi. La zona è popolata dall’etnia che dà il nome alla Repubblica, da russi e da kazaki. La strada segue per molti chilometri un altopiano prima di gettarsi nella valle di un fiume che chilometro dopo chilometro aumenta di portata, ingrossato dalla nevi ancora presenti nei monti attorno a noi. Capiamo che la lunga sosta in dogana non ci permetterà di raggiungere il capoluogo Gorno-Altajsk che doveva essere l’obiettivo di giornata per tentare di entrare in Kazakistan già domani. Anche il tramonto è davvero bello in questo scenario montano. L’oscurità rallenta ulteriormente la nostra marcia, visto che per ben due volte rischiamo di scontrarci con dei cavalli a passeggio lungo la strada. Proprio per questo decidiamo di sostare in una specie di camping nel microscopico villaggio di Karakol, circa dieci chilometri dopo la più grande Ongudaj. Ci viene assegnata una micro-casina senza bagno. I servizi igenici sono all’interno di un casottino ubicato nel campo dietro la casetta. Molto bello scoprire che all’interno del bagno c’è un vero water e non il solito buco sulla terra. Non c’è nulla di aperto per cenare e siamo costretti ad accontentarci di alcuni “pirozhki” di un vicino negozio lungo la P-256 “Chuyskiy Trakt”, la strada che ci condurrà domani a Gorno-Altajsk.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– La strada che attraversa la Repubblica dell’Altaj e arriva fino al confine di Tashanta è completamente asfaltata e in ottime condizioni. Dieci anni fa no.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 61 – Ferragosto senza traffico nelle piste mongole

15 agosto 2018, Altaj-Olgij (657 km) – Tot. 20.722

Dormita leggermente più lunga del solito approfittando del fatto che pochi chilometri dopo la partenza guadagneremo un’ora di fuso orario scendendo a +5 dall’Italia. La nostra sporchissima Hilux lascia l’albergo alle 7.30 della nuova ora con la consapevolezza di avere davanti a noi 440 chilometri di asfalto e poco più di 200 di piste. Solo una pausa caffè e qualche sosta per le foto ai bellissimi panorami intervallano la lunga tirata per guadagnare più tempo possibile nella parte buona. Da segnalare, purtroppo anche qui in Mongolia, il crollo di un ponte su un piccolo torrente. Il fatto deve essere accaduto da poco visto che gli operai dell’Anas locale stanno allestendo la segnaletica finalizzata a deviare il traffico su una vecchia pista. Allo stesso tempo troviamo due allagamenti della sede stradale a causa delle piogge degli ultimi giorni. Non è un problema per l’Hilux attraversare questi piccoli laghi appoggiando le ruote saldamente nell’asfalto. L’ottima strada permette un’andatura attorno ai cento orari. Da segnalare che buona parte del percorso odierno si sviluppa tra i duemila e i duemilaseicento metri di altezza. A causa delle quote elevate gli yak sostituiscono le mucche nei pascoli attorno alla strada. In alcuni tratti attorno a noi ci sono montagne che superano i 4.000 metri e che sono ricoperte di neve.

Attorno all’ora di pranzo siamo nella apparentemente piacevole città di Hovd da dove parte la pista per Olgij, obiettivo di giornata. Vedere il punto dove una moderna strada asfaltata si divide in una miriade di stradine sterrate è sempre emozionante. Rinunciamo alla sosta pranzo per avvantaggiarci nei circa duecento chilometri da percorrere e magari sostare più avanti per interrompere le fatiche delle pista. C’è un moderato ottimismo nel pensare di arrivare a destinazione in un orario comodo per poter riposare. Sbagliamo.

La pista è migliore di quella di ieri, meglio segnata nella parte iniziale e con fondo prevalentemente sabbioso che permette un’andatura di circa 60 km/h. Attorno al trentacinquesimo chilometro, in una zona non abitata e decisamente in altura, avvertiamo un forte sibilo arrivare dall’esterno. Purtroppo non è vento e neppure una radio troppo alta di un’altra auto di passaggio. La gomma posteriore sinistra si sta sgonfiando. Appena il tempo di percorrere altri trecento metri per cercare un fondo stradale non sabbioso e la ruota è completamente a terra. Non ci disperiamo dato l’orario non proibitivo. Semmai il problema è se e come proseguire senza la ruota di scorta una volta che avremo sostituito quella bucata. Recuperiamo tutta l’attrezzatura necessaria per lavorare, ma da subito emergono problemi sia nel posizionare il crick e sia nello svitare i bulloni della ruota. Chi ha viaggiato in Mongolia in auto conosce bene il fatto che da qualche parte c’è sempre qualcuno che salterà fuori per darti una mano, anche dove non c’è nessuno a perdita d’occhio. La tradizione è rispettata quando si ferma una motocicletta con a bordo due individui che saranno molto utili per il prosieguo dei lavori. Prendono in mano la situazione e recuperata una grossa pietra su cui appoggiare il crick organizzano anche il sistema per svitare i bulloni. I due mongoli tengono la chiave a croce e Guido, il più pesante, deve usare i propri novanta chili come leva. L’operazione riesce alla perfezione e nel giro di mezz’ora la gomma è cambiata. La ricompensa, assolutamente non richiesta, è meritata. La fatica per cambiare una gomma ad alta quota è grande e per riprendere una normale respirazione serviranno alcuni minuti.

Decidiamo di non tornare a Hovd per riparare la ruota ma proseguire con maggiore cautela, usando l’intero tempo a disposizione, fino al paese successivo, Tolbo, ubicato dopo circa novanta chilometri di distanza. Se tornassimo indietro diventerebbe impossibile raggiungere Olgij entro sera. La velocità rimane stabilmente sotto i 30 orari con la consapevolezza che una ulteriore foratura potrebbe creare problemi quasi insormontabili. I chilometri non sono molti, ma la complessità della strada è massima. Si sale fino a 2.600 metri sul livello del mare attraversando zone molto belle dove è possibile anche incontrare la locale fauna selvatica. Le poche volte che siamo rimasti soli ci è capitato di sbagliare strada, cosa che non aiuta nella gestione del tempo. Proprio a causa di ciò e in modo del tutto abusivo percorriamo alcuni piccoli tratti di una strada in costruzione ignorando i divieti che impedirebbero di farlo. Questa trasgressione si rende necessaria per recuperare prezioso tempo e per tranquillizzarci per qualche chilometro sulla salute delle nostre restanti gomme.

Scambiando informazioni con un equipaggio norvegese del Mongol Rally veniamo a sapere che venti chilometri dopo Tolbo ricomincia la parte asfaltata di percorso. A questo punto decidiamo di non fermarci a riparare la ruota e proseguiamo fino alla meta dove arriviamo attorno alle 20. Olgij è piena di moschee e donne velate, cosa che notiamo mentre cerchiamo l’albergo. Approfondendo la cosa capiamo che la maggioranza della popolazione di questa regione è di origine kazaka. Il Kazakhstan non confina con la Mongolia a causa di circa cinquanta chilometri di confine russo-cinese, ma nel corso dei secoli molti kazaki si stabilirono qui e nella regione degli Altaj. La forte religiosità presente è probabilmente un segno distintivo tra le due popolazioni di questa città.

Il ristorante dove proviamo a cenare – ricordiamo che il pranzo è stato del tutto saltato – non prevede la presenza di alcolici e anche per questo prendiamo la strada di un altro locale dove la radio trasmette musiche della vicina Russia, paese nel quale dovremmo riuscire a dormire domani, sempre che la temibile dogana di Tashanta non ci faccia cattive sorprese.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?
– A partire dal 2004, è possibile incontrare lungo le strade che portano ad Ulan Bator i partecipanti del Mongol Rally. L’evento è benefico e non competitivo, e in precedenza prevedeva di arrivare nella capitale mongola e regalare la propria auto che attraverso un’asta si sarebbe trasformata in denaro da devolvere in beneficenza a realtà che operano in Mongolia. Adesso l’evento finisce ad Ulan Ude, in Russia, e non più ad Ulan Bator come in passato. La maggior parte dei partecipanti onora comunque la Mongolia attraversandola da parte a parte.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 60 – Affondati nel fango

14 agosto 2018, Arvajheer-Altaj (595 km) – Tot. 20.065

Consapevoli della durissima giornata che ci aspetta carichiamo la sveglia all’alba. All’interno della missione questo non cambia molto le abitudini visto che anche i sacerdoti e le suore si svegliano presto. Un ottimo caffè all’italiana e via verso occidente con il sole nascente alle nostre spalle. I primi duecento chilometri sono percorsi in due ore e mezzo comprensive di soste per fotografie al paesaggio. Arrivati al paese di Bajanhogor finisce l’asfalto e comincia il previsto tratto di pista. Sostiamo in un negozio per acquistare cibarie ed acqua utile in caso di problemi in mezzo al nulla che ci aspetta. La signora del negozio parla russo e alla domanda sulle condizioni della strada che percorreremo ci dice che con un mezzo come il nostro ci metteremo solo dieci ore per raggiungere Altaj, il luogo dove proveremo ad arrivare. Le parole ascoltate non sono affatto confortanti e neppure il primo tratto di pista dove sbagliamo direzione un paio di volte, anche per merito della inesistente strada caricata nelle mappe di google. Torniamo a declassare il telefonino a ruolo di bussola ed utilizzare la vecchia ed infallibile mappa cartacea, oltre a cercare di rimanere sempre assieme a camion che conoscono la giusta direzione e quale tra le decine di piste che vanno verso ovest sia quella con il fondo in migliori condizioni. Ogni venti-trenta chilometri chiediamo conferma della direzione anche ai pastori che spesso controllano i gregge usando motociclette da cross. Proprio uno dei pastori ci indica un elettrodotto poco distante che raggiunge Altaj e che quindi può essere un buon punto di riferimento. La media è di circa 30-35 chilometri ogni ora con punte massime di velocità che toccano i 50 km/h e in un paio di rare occasioni abbiamo usato anche la quarta marcia. La strada è sempre al di sopra dei 2000 metri, con un’altezza massima raggiunta di circa 2500. Gli alberi sono completamente assenti e il fondo stradale è prevalentemente in terra battuta che in questi giorni di pioggia tende a diventare fango. Non ci sono guadi significativi grazie ai numerosi ponti di recente costruzione. Questo aspetto non deve essere trascurato visto che tutti i fiumi sono in piena e un guado senza ponti sarebbe risultato impossibile anche per un carro armato. Non manca, a tal proposito, una bella pioggia intensa di circa due ore utile a complicare la guida.

Elenchiamo le soste effettuate negli unici punti di ristoro presenti anche a beneficio di coloro che un domani potrebbero avere bisogno di queste informazioni. La seconda colazione è avvenuta nei pressi di Bumbugur in un suggestivo luogo raggiunto dopo aver percorso alcuni chilometri nel bacino di un fiume in secca. L’ottimo pranzo come sempre a base di pecora, invece, alla fine della cittadina di Buutsagaan dove l’oste mongolo ci ha consolato spiegandoci che dopo circa 80 chilometri sarebbe tornato l’asfalto. La sofferenza per la difficoltà della guida è alleviata dallo stupendo panorama che si gode dall’altopiano che attraversiamo.

L’ultima parte di strada prima del luogo indicato dall’oste è però costituito da una zona molto acquitrinosa. Attraversiamo due difficili tratti sfruttando le quattro ruote motrici del nostro veicolo e al terzo tratto lungo una cinquantina di metri forse pecchiamo di superficialità visto che sprofondiamo nel fango. Per l’esattezza la macchina si impantana del tutto a meno di un metro dalla fine del tratto fangoso. Le ruote girano a vuoto nonostante l’uso delle marce ridotte. Non perdiamo la calma visti i due analoghi episodi del 2008 quando ci insabbiammo con la vecchia Marea. Di solito entro pochi minuti passa sempre qualcuno che può tirarti fuori. Ricordiamo che queste strade sono percorse anche da auto senza trazione integrale ed è educazione che i fuoristrada aiutino coloro che rimangono bloccati nelle varie situazioni possibili. Una jeep si offre di tirarci fuori e il paradosso è che possiamo agganciare la fune metallica alla parte anteriore della Hilux senza sporcarci visto che l’asciutto si trova veramente a pochi centimetri dal parafango oltre che dallo sportello lato passeggeri. L’impegno è minimo e in pochi secondi siamo fuori dal pantano con la nostra auto ben segnata dal marrone che ci ha avvolto. Lasciamo una ricompensa ai soccorritori che decidono di donarci il loro cavo metallico da traino per fare in modo che possiamo essere attrezzati in caso di future nuove difficoltà.
Ironia della sorte, circa tre chilometri dopo inizia l’asfalto che ci accompagna negli ultimi cento chilometri fino ad Altaj. La signora della bottega di Bajanhogor aveva ragione visto che abbiamo percorso il tratto in questione in nove ore e mezza.
Questa parte di strada è in ottime condizioni, nuovissima, e nonostante il limite di ottanta si viaggia in sicurezza, cammelli stradali permettendo, anche a cento. Nei poco meno di trecento chilometri di pista percorsa oggi abbiamo notato vari cantieri di costruzione della strada che collegherà Altaj a Ulan Bator e più in generale il confine russo-mongolo occidentale con la capitale. Al momento i tratti mancanti sono molti e i lavori di costruzione non semplici. Allo stesso tempo i tratti più vecchi cominciano a necessitare di manutenzione. Con ogni probabilità se dovessimo tornare qui tra qualche anno il percorso che facciamo in quattro giorni sarà possibile farlo in un giorno e mezzo. La stessa cosa è successa con la strada che collega Ulan Bator con la Cina attraverso il valico di Zamin Uud. Nel 2008 usammo tre giorni per percorrere questo tratto, oggi basta poco più di mezza giornata.
Arrivati nella piccola e non bella Altaj facciamo l’unico rabbocco di gasolio in tutta la parte mongola di viaggio. Grazie all’ultimo rifornimento di metano russo che non abbiamo voluto usare prima di oggi, abbiamo ora la possibilità di attraversare tutto l’ovest della Mongolia senza bisogno di ulteriori rifornimenti grazie ad una autonomia diesel-metano di circa 1500 chilometri.
Ci ospita un grazioso ed economico hotel lungo la strada dove abbiamo la fortuna di cenare con due attempati inglesi che stanno percorrendo il Mongol Rally. Ci scambiamo informazioni sulle rispettive strade che andremo a percorrere nella giornata di domani e scopriamo con piacere che almeno 400 dei prossimi 650 chilometri saranno su fondo stradale asfaltato. Loro sono molto meno felici delle informazioni che gli comunichiamo su quello che li aspetta domani.
Siamo a 2200 metri di altezza e nella passeggiata serale c’è decisamente bisogno di una giacca, che forse non servirà ad Andrea e Claudia che partiti questa mattina da Ulan Bator, trascorreranno un paio di giorni ad Istanbul prima del rientro in Italia.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?
– Le infrastrutture stradali mongole sono in grande sviluppo anche se ancora lontane dal coprire del tutte le principali direttrici. Nel frattempo la costruzione di ponti, anche senza l’annessa strada, permette di eliminare del tutto i guadi sui fiumi.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 59 – Tra cammelli, deserti e missionari

13 agosto 2018, Ulan Bator-Arvajheer (430 km) – Tot. 19.470

Oggi la Torino-Pechino lascia Ulan Bator per cominciare la lunga traversata di steppe e deserti (1600 km) che in circa quattro giorni vedranno la Toyota Hilux tornare in Russia. Dopo la colazione nella guesthouse che ci ospita troviamo la nostra auto chiusa da altri autoveicoli e quindi impossibilitata a lasciare il parcheggio. Per fortuna la padrona della guesthouse conosce la proprietaria di una delle macchine e riusciamo a liberarci. Ulan Bator dimostra di non volerci far andare via visto che il traffico del lunedì mattina ci costringe a percorrere in un’ora i sette chilometri necessari ad uscire dalla capitale.

Superata la zona dell’aeroporto il traffico cessa e inizia il consueto vuoto quasi assoluto che caratterizza la campagna mongola. Sappiamo che i primi chilometri di strada verso ovest saranno prevalentemente asfaltati, ad esclusione di qualche zona dove la cattiva manutenzione costringe ad andature molto lente. Su suggerimento di Padre Ernesto ci fermiamo circa cento chilometri dalla capitale, appena dopo il paesino di Lun, in una specie di autogrill in salsa mongola dove si può fare una colazione “all’italiana”. In effetti il caffè è buonissimo e il piccolo assortimento di pasticceria, composto da un solo tipo di salato e un altro solo tipo di dolce, risulta essere altrettanto gustoso. Il prezzo di tre colazioni è circa la metà di quello di un “camogli” delle nostre aree di servizio.

Il viaggio prosegue su strada buona e l’unico pericolo è costituito da pecore, capre, mucche e cavalli, sempre in branchi, che spesso attraversano il nostro percorso. A circa duecento chilometri dalla capitale fanno il loro esordio nella nostra collezione di animali stradali i cammelli!
Il tutto nei pressi di uno strano avamposto di deserto, definibile un’oasi al contrario visto che trattasi di una vasta isola di deserto circondata dal verde degli altopiani mongoli. Vicino c’è la cittadina di Rashaant, che su questa vasta zona sabbiosa ha costruito le proprie fortune legate al turismo. Qui, per la prima volta nell’intero viaggio, usiamo le quattro ruote motrici per divertirci a provare l’ebbrezza di salire e scendere da una duna di sabbia. Immortaliamo il tutto con foto e filmati. In questo strano luogo ci concediamo un pranzo all’interno di una gher a base di ravioloni ripieni di montone e altre prelibatezze sempre a base dell’animale più popolare in questa terra.

Negli ultimi duecento chilometri torna il verde alternato a zone rocciose. Alla guida c’è Andrea che dovrà fare i conti con qualche chilometro di pista e con un pessimo fondo stradale anche in presenza di asfalto. Il pedaggio di meno di mezzo euro ci annuncia che siamo ormai prossimi ad Arvajheer, il paese dove c’è la missione coordinata da Padre Ernesto assieme a Padre Giorgio e Padre Dido. Proprio quest’ultimo, di origine congolese, ci accoglie all’interno dell’interessante struttura. Come primo atto ci viene offerto un graditissimo caffè fatto con la moka. Si uniscono a noi anche le tre suore che vivono nella missione. In muratura c’è solo il centro dove vivono i sacerdoti e le suore e un’ulteriore parte dedicata agli ospiti. Con nostra sorpresa notiamo che la chiesa non è una struttura in mattoni o cemento, ma una gher mongola. All’interno c’è tutto quello che si può trovare in una chiesa, ma con la caratteristica di forma e struttura senza dubbio originali. Nelle altre gher posizionate all’interno dello spazio occupato dalla missione ci sono due oratori dove tutti i bambini della città – cattolici sono qualche decina su 20.000 abitanti – possono giocare, studiare o comunque trascorrere tempo. Lo spirito della missione non è quello di contabilizzare battesimi in una terra dove il cattolicesimo è arrivato da appena ventiquattro anni, ma cercare di fornire appoggio alle famiglie locali. Interessante anche il centro dedicato al sostegno e recupero delle persone con problemi di alcolismo e quello dove le donne della città possono lavorare borse e altri oggetti simili da poter vendere grazie ai contatti della missione. Non manca lo spazio dedicato alla coltivazione in serra di verdure quasi introvabili in Mongolia.

Alle 18.00 arriva l’orario di partenza di Andrea e Claudia che dovranno rientrare in autobus nella capitale per prendere l’aereo che domani li riporterà verso l’Europa. Il saluto ufficiale tra i membri della Torino-Pechino avviene nel piazzale della stazione degli autobus. Guido e Bruno decidono di cenare e pernottare alla missione per potersi risparmiare altre tre ore di viaggio che saranno spostate all’alba di domani dopo un meritato riposo.
Piacevole la conversazione durante la cena, bagnata con l’ultima bottiglia di vino 43° delle Tenute Nardi che ha percorso via terra tutti i chilometri del viaggio. Si parla dell’attività dei cattolici in Mongolia, ma anche delle vicende relative ai grandi vicini di questo paese, Russia e Cina. Fine serata con shopping e acquisto di prodotti fatti a mano dalle donne di Arvajheer nei laboratori del centro che questa sera ospita la Torino-Pechino.

Anche se può non sembrare osservando una carta geografica o viaggiando in queste strade, Arvajheer è a 1800 metri sul livello del mare mentre la capitale Ulan Bator è solo a 1300.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?
– Pur non avendo visitato questo luogo, già nel 2008 avemmo notizie sull’attività della missione a Arvajeer. La struttura è più grande e molto potenziata e l’attività del centro di formazione professionale è senza dubbio il fiore all’occhiello di questa esperienza.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Andrea Gnaldi, Claudia Giorgio

Giorno 58 – Ulan Bator, una città in grande trasformazione

12 agosto 2018, Ulan Bator (km 12) – Tot. 19.040

La statua di Sukhbaatar nel 2008 e, a destra, come appare oggi. Tutte le coppie di foto di questo articolo sono confronti con dieci anni fa.

La nostra domenica ad Ulan Bator comincia in stile italiano grazie ad un perfetto espresso bevuto in tarda mattinata nel piccolo caffè “Ti Amo”. La città è quasi deserta e questo concilia molto la passeggiata nella parte centrale della capitale mongola. La piazza dove si trova il parlamento, il Grande Hural, è dedicata a Sukhbaatar e al centro si trova una statua dell’eroe mongolo a cavallo. Ricordavamo la statua di colore rosso mentre oggi è nera. Sulla parte centrale del palazzo del parlamento, al posto del mausoleo che ospitava fino al 2005 le spoglie di Sukhbaatar, c’è oggi una statua di Gengis Khan seduto.

La cosa più impressionante è la presenza di enormi palazzi, anche grattacieli, sul lato meridionale della piazza. Guardando le fotografie del 2008 possiamo notare solo uno di questi in costruzione. L’espansione urbana della città è ben visibile soprattutto in periferia, dove si affollano centinaia di gher e nuove case di quella parte della popolazione che si sposta in cerca di fortuna nella capitale. Dieci anni fa la popolazione era attorno al milione mentre oggi si sono aggiunte altre 500.000 persone. Anche l’intera Mongolia sta vivendo un boom demografico visto che, analizzando sempre lo stesso periodo, si sono superati i tre milioni contro i due e mezzo del 2008. I palazzi del centro non sono destinati ai nuovi residenti, ma piuttosto ad uffici di compagnie private che si occupano di sfruttamento delle risorse minerarie del paese.

Lasciando la piazza finalmente ritroviamo qualcosa di simile al viaggio precedente: il telefonista pubblico. Trattasi di un simpatico personaggio che da sempre è accampato attorno all’ufficio postale centrale offrendo con un radiotelefono la possibilità di telefonare a prezzi modesti. A questo servizio abbinava anche la possibilità di pesarsi in una bilancia e la vendita di fiammiferi. Il tipo è sempre quello e dimostra la stessa simpatia che cogliemmo nelle foto scattate nel 2008. Siamo ben felici, per 10 centesimi di euro, di ripetere la nostra pesatura e comprare una scatola di cerini.

All’ora di pranzo riusciamo a metterci in contatto con Padre Ernesto Viscardi, altro interessante personaggio conosciuto nell’occasione precedente e ci diamo appuntamento per la cena di stasera.

Nel frattempo, terminato il pranzo consumato in una panetteria-pizzeria, saltiamo a bordo della nostra Hilux e senza rilevanti problemi di traffico raggiungiamo alla periferia sud della città il monumento-belvedere Zaisan. In questa collina che domina Ulan Bator, i sovietici realizzarono un punto panoramico dedicato all’amicizia tra Unione Sovietica e Mongolia. Una serie di mosaici ricordano l’aiuto dato dai russi per l’indipendenza dello stato mongolo dalla Cina e la costruzione comune del progresso popolare attraverso la via socialista. Altre scene ricordano l’ulteriore aiuto dell’Urss contro le mire espansionistiche del Giappone, la partecipazione di un contingente di mongoli alla battaglia finale per la conquista di Berlino fino al primo ed unico volo di un cosmonauta locale nello spazio in una missione Soyuz.

Quello che precedentemente era un belvedere sulla città e sugli spazi verdi circostanti, oggi si è trasformato in un balcone su un enorme centro commerciale e su una serie di nuovi palazzi che stavolta sono destinati alla parte di popolazione più benestante. Incredibilmente anche la scalinata che portava in cima al monumento oggi è in parte inglobata all’interno di un centro commerciale. La stessa nuova struttura divide il memoriale dai carri armati, un tempo parte del complesso e oggi rimasti alla base della collina. Anche un enorme Buddha che precedentemente viveva al centro di un parco oggi si trova imprigionato tra i palazzi.

Rientriamo al nostro alloggio da dove ripartiamo per un’ulteriore passeggiata nel centro cittadino, interrotta per circa venti minuti da un forte temporale.

Arriva l’ora dell’incontro con Padre Ernesto e insieme ci rechiamo a mangiare qualcosa in un pub del centro. Qui ascoltiamo ben volentieri i progressi che la missione da lui coordinata ha effettuato in questi dieci anni. Ci eravamo lasciati nel 2008 con circa quattrocento cattolici in un paese dove il cristianesimo non è mai esistito in precedenza. Oggi i cattolici sono triplicati e sono sorte sei parrocchie in quattro diverse città della Mongolia centrale. Non entriamo nei particolati dell’attività di Padre Ernesto poiché nella giornata di domani potremo visitare una delle missioni nella città di Arvajheer. La cosa che giudichiamo interessante è il fatto che la Chiesa in questa terra ha scelto una politica di evangelizzazione non aggressiva, prediligendo la creazione di scuole o centri professionali rispetto al proselitismo. L’umanità e semplicità con cui Padre Ernesto racconta il proprio impegno per cercare di migliorare la situazione nelle periferie di Ulan Bator o nei paesini sperduti è davvero ammirevole. Siamo ben lieti di ritrovare questo missionario con lo stesso entusiasmo con cui lo avevamo incontrato la prima volta nel 2008. Affrontiamo anche il tema della situazione sociale ed economica in Mongolia e parliamo anche delle strade che dovremo percorrere nei prossimi giorni per raggiungere, attraverso percorsi asfaltati e altri in terra battuta, il confine più occidentale tra la Russia e la Mongolia. La serata si conclude con una ulteriore passeggiata nell’isola pedonale di Seul Street, strada molto animata e ricca di gruppi o solisti impegnati in musica dal vivo.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– Il boom urbanistico di Ulan Bator è enorme. La cementificazione ha raggiunto tutti i quartieri periferici e attorno alla piazza principale sono stati costruiti nuovi imponenti palazzi.

– La statua di Sukhbaatar al centro dell’omonima piazza ha cambiato colore. Quella di Lenin poco vicino non c’è più.

– I cattolici in dieci anni sono più che triplicati passando da circa 400 a circa 1400.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Andrea Gnaldi, Claudia Giorgio

Giorno 57 – Cinquanta sfumature di verde

11 agosto 2018, Sukhbaatar-Ulan Bator (331 km) – Tot. 19.028

I viaggiatori della Torino-Pechino, di nuovo insieme, si concedono qualche ora in più di riposo alzandosi dal letto più tardi del solito. Ad attenderli c’è la strana colazione dell’Hotel Selenge a base di tè e minestra con pezzi di lardo. Il tutto preparato dalla inquietante receptionist che lavorava con gli occhiali da sole anche in piena notte. La somiglianza con Morticia Adams in salsa mongola è notevole. L’Hotel non accetta carte di credito e neppure valuta straniera. Siamo costretti a lasciare Claudia e i bagagli in ostaggio e andare alla ricerca di tigrit mongoli. Il primo tentativo viene fatto alla stazione del treno da dove l’addetta alla vendita dei biglietti ci consiglia di fidarsi di un suo amico per effettuare il conveniente cambio. Il tipo ci propone 2000 tigrit per un euro quando il valore ufficiale è 2800. Rinunciamo all’affare e cerchiamo una banca, cosa che di sabato risulta non essere facile neanche in Mongolia. Alla fine risolviamo il tutto in un bancomat della piazza principale di Sukhbaatar che porta lo stesso nome della città e al cui centro c’è la statua di colui a cui sono dedicate sia la piazza che la città.

Saldato il conto partiamo per Ulan Bator, consapevoli che la giornata sarà volutamente lunga e dedicata anche a molti chilometri fuori dalla strada principale per vedere come si vive nelle gher, le tipiche tende mongole. Dopo pochi chilometri ci avviciniamo infatti ad un piccolo insediamento di pastori e timidamente cominciamo a interagire con gli abitanti di un gruppetto di gher. Nonostante la difficoltà di comunicazione verbale riusciamo ad entrare in sintonia grazie alla sempre valida gestualità e ad un reciproco scambio di doni: magliette, penne e cappellini dei nostri sponsor vengono ricambiati con del formaggio, latte ed un giro a cavallo. Il tutto si conclude con una foto di gruppo e tanti sorrisi. Riprendiamo la nostra strada arricchiti da una sensazione di gratitudine per questa piccola lezione di vita e generosità offertaci nella massima semplicità.

Dopo aver attraversato valli disseminate di yurte, cavalli e bestiame di vario genere, decidiamo di ripercorrere le stesse tappe del viaggio di dieci anni fa. Ci fermiamo quindi per il pranzo nella cittadina di Darkhan, che ci appare molto diversa da come la ricordavamo. Non riusciamo a ritrovare il locale dove avevamo mangiato la volta scorsa e optiamo per un piccolo ristorantino dove ci viene servito un abbondante piatto di plov che, seppur non molto fedele alla ricetta originale, risulta comunque gustoso.

Dopo la pausa ristoro il capo spedizione Guido cede la guida ad Andrea che con grande emozione e piacere percorre la manciata di chilometri che mancano per raggiungere Ulanbator. Quando mancano circa un centinaio di chilometri al fine-tappa un momento di grande emozione coinvolge l’equipaggio: dopo averlo cercato per tutto il giorno, ecco apparire all’improvviso il luogo esatto in cui nel 2008 fu scattata lo foto che poi divenne la copertina del libro “Aregolavanti”. Doverosa quindi la foto di rito dei “dieci anni dopo”.

Prima dell’arrivo in città colpisce la nostra attenzione un importante impianto di energia fotovoltaica che fa ben sperare per il futuro, considerando che in questa nazione l’energia viene ancora prodotta per la maggior parte dalla combustione del carbone. A favore dell’aspetto ecologico ci rincuora veder circolare molte auto ibride e contare lungo la strada decine di stazioni di gpl per autotrazione.

L’entrata nella capitale è al tramonto e in mezzo ad un traffico molto confuso e impegnativo. Prendiamo alloggio nella guest house che aveva già ospitato nei giorni scorsi Andrea e Claudia. A pochi metri dalla nostra residenza mongola sorgeva il ristorante Marco Polo dove ci è capitato di mangiare nel 2008. Come spesso accaduto in questo viaggio, scopriamo con amarezza che anche questa realtà non esiste più. Decidiamo di ripiegare in un ristorante uzbeko per mangiare shasliki di carne di montone, poi piccola passeggiata in centro città propedeutica alla destinazione finale della giornata: il letto.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– In Mongolia alcuni tratti stradali sono divenuti a pagamento. In ogni caso si paga meno di due euro per 370 chilometri. Anche il traffico è decisamente aumentato.

– I tre distributori di gpl del 2008 oggi sono diventati un rete presente in ogni città.

– Incredibile come almeno la metà delle auto in circolazione siano ibride e in particolare modo Toyoya Prius, dal primo all’ultimo modello prodotto.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Andrea Gnaldi, Claudia Giorgio

Giorno 56 – Riuniti al confine

10 agosto 2018

Team1, Arej-Sükhbaatar (km. 526) – Tot. 18.697

Le prime ore del mattino ci permettono di apprezzare meglio il luogo dove abbiamo dormito. Non solo lo squallido piazzale sterrato pieno di buche, ma anche un ridente lago con strutture ricreative. Questo spiega il motivo dei tanti bambini presenti in albergo a fare una esperienza tipo campi estivi. Approfondendo il tema scopriamo che il Lago di Arej è più popolare di quanto potessimo pensare.

Prima delle 8.00 siamo già in marcia con la speranza di raggiungere il confine con la Mongolia nel primo pomeriggio. La prima sorpresa della mattina è, con gli occhi ancora affaticati dal poco sonno, l’incontro con alcuni ciclisti della Red Bull Trans Siberia Extreme. Trattasi di una corsa da Mosca a Vladivostok nella quale gli atleti sono liberi di fermarsi quando vogliono e dove vogliono. I più competitivi riescono a completare il percorso di quasi 10.000 chilometri in circa tre settimane dormendo pochissime ore.

A metà mattinata è il momento di prendere una decisione che potrebbe influenzare la giornata. La strada più breve segnalata dai nostri telefonini, duecentocinquanta chilometri invece che cinquecento, è appena riportata nelle mappe stradali. Il rischio ci affascina e come al solito scegliamo di percorrere questa nuova tratta che ci permette di risparmiare carburante e ci regalerà certamente emozioni. Infatti la prima sorpresa è non incontrare edifici in muratura, ma solo in legno, per almeno cento chilometri. La seconda è vedere l’asfalto precario trasformarsi in pista di terra battuta nei boschi di betulle. La terza è cercare di evitare le profonde buche senza scontrarsi con cavalli, mucche, pecore e fauna selvatica. In tutto questo non ci accorgiamo del cambio di fuso orario al non segnalato confine tra Transbajkalia e Buriazia, dove l’orologio deve tornare indietro di un’ora.

La comparsa della cittadina di Bichura non è un miraggio. Qui troviamo asfalto, stazioni di benzina, un luogo per mangiare e una banca per cambiare denaro, e tutto questo ci permette di riprendere energie per affrontare gli ultimi chilometri prima della dogana. Circa cinquanta chilometri prima della cittadina di frontiera di Kjachta costeggiano il confine. Veniamo fermati dai militi che pattugliano la frontiera perché di fatto dobbiamo percorrere la strada che passa tra il filo spinato e le torri di guardia. Ci viene fatto un permesso che sarà poi riconsegnato alla fine della zona militare e riceviamo la raccomandazione di non avvicinarsi al reticolato che divide la Russia dalla Mongolia. Finito anche questo ulteriore tratto di strada ecco comparire Kjachta che, oltre ad ospitare una delle tre dogane internazionali dove gli stranieri possono transitare tra i due Paesi, fu protagonista di una lunga notte durante la Torino-Pechino 2008. L’albergo “Amicizia” di quel giorno di luglio è ancora attivo e al proprio posto.

Lunghissima la sosta presso la parte russa del confine dove la disorganizzazione regna sovrana. Sorprendentemente i doganieri decidono di dividere in due gruppi coloro che aspettano. I mongoli da un lato e i russi dall’altro. Essendo solo tre le auto russe e almeno venti quelle mongole, decido di unirmi a quelli somaticamente più simili a me. Questa è la svolta del pomeriggio, grazie alla quale riusciamo a guadagnare molte posizioni ed anticipare anche le procedure della parte mongola. Alla fine le ore di sosta saranno cinque comprensive di assicurazione per l’auto (un mese a circa 25 euro) e altre tasse ecologiche per complessivi cinque euro.

Esattamente come dieci anni fa, i primi minuti di Mongolia trasmettono una strana euforia. Sentiamo il bisogno di fare foto con le immense steppe verdi e con il cartello di inizio della nazione. Il tutto nella cornice del tramonto che ci ricorda che sarebbe bene raggiungere Andrea e Claudia al più preso. Appena venticinque chilometri per incontrare gli altri membri della spedizione alla stazione ferroviaria di Sükhbaatar e finalmente abbracciarsi in modo liberatorio viste le difficili giornate che hanno preceduto questo ricongiungimento.

Team 2, Ulanbator-Sükhbaatar

Il risveglio ad Ulanbator è accompagnato da una leggera pioggia che rende ancora più fresca l’aria mattutina. Dopo una buona colazione a base di pane tostato con uova, marmellata e crema spalmabile, Andrea e Claudia si accordano con la proprietaria della Guest House per lasciarle in custodia i bagagli. Infatti, una volta rientrati nella capitale mongola con il capospedizione Guido ed il fedele Bruno, soggiorneranno nuovamente lì avendo riservato una quadrupla ad un prezzo speciale.
Mini-zaino in spalla, i nostri si dirigono verso la stazione dove li attende il treno che in sole 10 ore coprirà i circa 300km che li separano da Suhbaatar.
Il viaggio trascorre piacevolmente con la possibilità questa volta, complici le ore di luce, di godere del panorama circostante: valli che si alternano a zone montuose, villaggi di case in mattoni e legno che cedono il posto alle tipiche yurte, mandrie di buoi e gruppi di cavalli selvaggi.
Con uno stentato inglese il team2 fa amicizia con i vicini di posto, tra cui un giovane padre che si divide tra il lavoro nella capitale e la famiglia che vive in un villaggio a 3 ore di treno.
Una volta arrivati a Sükhbaatar, in attesa di ricongiungersi con il team 1, trovano sistemazione per la notte in un originalissimo ed un po’ equivoco albergo degli anni 50, il Selenge hotel.

FINALE DI GIORNATA COMUNE

La cena a base di carne arrosto e verdure in un tipico ristorante mongolo è l’occasione per aggiornarsi sui rispettivi viaggi e per programmare le attività del fine settimana nella capitale mongola. La città che ci vede di nuovo assieme è intitolata a Damdin Sukh, detto Sükhbaatar, padre della Mongolia socialista e padre dell’indipendenza dalla Cina nel 1921. Dopo Gengis Khan è sicuramente il mongolo più apprezzato in questa nazionel.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– La dogana di Kjachta è finalmente aperta 24 ore al giorno e sette giorni alla settimana, mentre dieci anni fa era aperta solo di giorno e chiusa la domenica.

– Con sopresa scopriamo che il costo dell’assicurazione è diminuito, forse anche per la svalutazione che il Tigrit, la moneta locale, ha avuto nello stesso periodo.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Andrea Gnaldi, Claudia Giorgio

Giorno 55 – Verde Mongolia

9 agosto 2018

Team1: Erofej Pavlovic-Arej (km. 975) – Tot. 18.171

La sveglia del telefono suona ancora nel fuso orario di Vladivostok, quindi un’ora prima. Ci accorgiamo della cosa quando abbiamo già portato le valigie in auto e quindi di fatto partiamo in anticipo rispetto al programma. Ieri sera avevamo deciso di regalarci un’oretta in più di sonno, ma nei fatti questo non è avvenuto. Lasciamo lo sterrato che collega Erofej Pavlovich con la “Avtodoroga P-297” e riprendiamo la marcia verso ovest. Il tratto che affrontiamo oggi è quello che alcuni siti di viaggio inglesi chiamano “Zilov Gap”. Come già raccontato in precedenza fino a quindici anni fa questa parte di strada non esisteva e l’Unione Sovietica prima e la Russia poi erano divise in due. Unica cerniera era la Ferrovia Transiberiana. Nel 1995, un gruppo di motociclisti americani che si faceva chiamare “Moto Enduro”, capitanato da Austin Vince, protagonista di numerose trasmissioni Tv anglosassoni dedicate ai viaggi estremi, fu protagonista  di una singolare avventura. Nel loro giro del mondo in moto decisero che sarebbero riusciti a superare lo Zilov Gap. All’epoca la parte non esistente si limitava ai circa 600 chilometri da Chernyshevsk a Skovorodino. I bikers erano convinti che usando alcune stradine di manutenzione della ferrovia e altri collegamenti nei campi tra i vari villaggi sarebbero potuti in qualche modo passare. Il ragionamento in parte era giusto, ma restavano i circa trenta guadi, di cui almeno due molto più profondi dell’altezza di un uomo, e tutte le zone di fitta vegetazione e altre eternamente acquitrinose e paludose. Il ritmo era di meno di tre chilometri al giorno. La leggenda narra che dopo circa 300 chilometri le moto fossero ormai inutilizzabili e che grazie ai lavoratori di una miniera furono rimesse in sesto. Altri cento chilometri, e i nostri eroi rinunciarono all’impresa caricando le moto sul treno. Peccato che in realtà mancassero solo un paio di valli e poi avrebbero potuto seguire il fiume che passa proprio da Erofej Pavlovic e da lì raggiungere facilmente la strada vera a Skovorodino. Va precisato che la P-297 percorre 2165 chilometri completamente nuovi, evitando di sovrapporsi ai tratti di strada precedentemente esistenti, anzi spesso allontanandosi molto dal precedente percorso.

Nel frattempo i due team della Torino-Pechino riescono a sentirsi telefonicamente e organizzare l’incontro al confine russo-mongolo che avverrà domani tardo pomeriggio. Il fatto che Andrea e Claudia arriveranno in treno a Sükhbaatar definisce l’ultimo dubbio stradale di Guido e Bruno, ovvero da quale confine entrare in Mongolia. La scelta di fatto cade su quello di Kjachta, già attraversato nel viaggio del 2008 e che permette di percorrere molti chilometri in Russia su strada migliore delle piste mongole. Queste ultime non mancheranno di essere protagoniste della parte di viaggio successiva.

In tutte le poche stazioni di rifornimento presenti ci sono file molto lunghe visto che molti automobilisti non possono aspettare quelle successive a cento o duecento chilometri di distanza. Questo fatto ci fa apprezzare ancora di più la presenza del diesel-metano che ci permette di sostare per rifornirci di gasolio ogni 1400-15000 chilometri invece dei consueti 700-800 che il nostro veicolo senza metano avrebbe come autonomia.

La nota di colore più interessante di oggi è il verde imperante in ogni valle che attraversiamo e che caratterizzerà i prossimi giorni in Mongolia. Del resto proprio il verde dei boschi, dei campi, oppure dei pascoli è il colore che domina nel paese mongolo. Durante il viaggio di andata la pioggia e la nebbia disturbarono notevolmente la possibilità di apprezzare il paesaggio, ma oggi il sole e un cielo magnificamente azzuro ci regalano paesaggi spettacolari. Bruno più volte chiede e ottiene il permesso di fare piccole passeggiate nei verdi prati che circondano la strada.

Tra i vari caffè Rosneft e il pranzo a Chernyshevsk, a metà pomeriggio gli oltre 2100 chilometri della P-297 sono finalmente terminati con l’ingresso a Cita e le relative foto commemorative. Un brutto episodio accade nella specie di tangenziale che bypassa la città. In una zona transennata per impedire ai pedoni di invadere la carreggiata riservata alle auto, una signora anziana viene centrata da un motociclista. Va peggio alla signora che termina la propria vita sull’asfalto della tangenziale di Cita. Si tratta del primo incidente mortale a cui assistiamo dopo averne osservati almeno altri quattro dove non c’erano morti e neppure feriti gravi. Il fatto ci turba e ci fa ricordare l’importanza della prudenza in ogni situazione.

Forse è proprio per prudenza che il viaggio di oggi si ferma ad Arej, circa 230 chilometri dopo Cita e meno di 100 dall’altra città, Chilok, che poteva essere l’obiettivo di giornata. I chilometri alla frontiera di domani sono circa cinquecento, percorribili senza problemi per consentire il passaggio del confine nel pomeriggio. L’alloggio nel piccolo albergo lungo la strada non è certo il migliore di quelli dove siamo capitati, idem per il kafé del piano terra, ma la notte incombe e il numero elevato di animali vaganti incontrati nell’ultimo chilometro, in particolare mucche e cavalli, fa propendere per evitare inutili rischi.

Team 2: arrivo a Ulanbator
Il risveglio di Andrea e Claudia all’alba è reso lieto dal panorama fiabesco del deserto del Gobi che scorre sotto le rotaie del treno: mandrie di mucche, cavalli allo stato brado e le yurte, tipiche tende dei nomadi mongoli.
Sono le 9:30 quando il treno entra nella stazione di Ulanbator, molto affollata di gente e mercanzie varie. Dopo un breve confronto telefonico con il capospedizione Guido il team2, considerata positiva l’esperienza dell’appena trascorsa trasferta di 14 ore, prontamente acquista due ulteriori biglietti per raggiungere l’indomani la città di Sükhbaatar, meta definita per il ricongiungimento con il team1.
La giornata ad Ulanbator è dedicata al riposo ed alla visita dei principali siti della città tra cui il tempio di Gandan dove è custodita una imponente statua di Budda alta ben 26,5 metri.
Per la sosta Andrea e Claudia hanno scelto Wonder Mongolia, una graziosa guesthouse nei pressi del centro cittadino.
Ulanbator si conferma una capitale, come dieci anni fa, proiettata al turismo ed agli investimenti esteri. Tanti sono infatti i turisti occidentali incontrati in centro città.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– Per la prima volta nella storia di Erofej Pavlovic due turisti, Guido e Bruno, tornano appositamente per dormire e mangiare in questa non ridente cittadina.

Equipaggio del giorno:

Team 1: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Team 2: Andrea Gnaldi, Claudia Giorgio