Giorno 76 – Sul fondale del lago d’Aral

30 agosto 2018, Moynaq (lago d’Aral) – Beyneu (km 513 – tot. 26.662)

Il primo mattino al di fuori della yurta che ci ospita è piuttosto freddo. Siamo costretti ad indossare felpe per recarci a fare colazione nel vecchio faro del porto di Moynaq. Le barche arenate sul fondale sotto di noi sono impressionanti. Qui mancano almeno dieci metri di acqua che corrispondono a decine di chilometri di distanza dalla nuova e sempre più precaria riva di ciò che resta del lago. Sono ancora visibili alcuni canali artificiali che per alcuni anni hanno permesso alle barche di raggiungere la riva del lago sempre più lontana. Qui si viveva di pesca e dell’inscatolamento dei prodotti del lago. Oggi si vive di agricoltura, soprattutto frutta, e il famigerato cotone responsabile di gran parte del prelevamento idrico degli affluenti del lago. Molti libri e inchieste sul tema raccontano di uno scenario catastrofico anche dal punto di vista economico, oltre a quello naturalistico ed a problemi per la salute delle persone. Le testimonianze che abbiamo raccolto a Monyaq non sembrano essere favorevoli ad un ritorno del lago se questo dovesse significare la perdita del lavoro che ha portato l’agricoltura. Interessante registrare una forte nostalgia dell’Unione Sovietica, vista come soggetto al di sopra delle conflittualità tra le cinque repubbliche centroasiatiche che non si mettono d’accordo su come provare a salvare quello che resta del lago. I nostri interlocutori sono dei muratori protagonisti di un episodio che ha caratterizzato la nostra mattinata. Dopo aver fatto le foto alle barche sul fondale del lago, abbiamo avuto la sciagurata idea di andarci anche in auto, consapevoli dei rischi di insabbiamento che anche una potente 4×4 come la nostra può correre. Come volevasi dimostrare siamo rimasti in mezzo alle due navi più grandi del memoriale dedicato alla scomparsa del lago. Per un attimo pensiamo ai turisti che tra qualche anno potrebbero trovare l’Hilux arrugginito parcheggiato per sempre vicino ai pescherecci dell’Aral. Senza eccessive preoccupazioni Guido si è incamminato fino ad un cantiere di una casa in costruzione notata in precedenza. Da qui è tornato all’auto con una squadra di muratori karacalpachi che armati di badili, sacchi da mettere sotto le ruote e molta forza fisica sono riusciti a disincagliare la Hilux. Abbiamo ringraziato offrendo un pranzo, regalando una bottiglia di vodka e gli ultimi cappelli BTS-Biogas rimasti a bordo della nostra auto. Con l’occasione abbiamo scambiato opinioni sul disastro ambientale in questo luogo. Come accennavamo siamo rimasti sorpresi dalle risposte date. Alla nostra affermazione che proprio le politiche sovietiche avessero portato al disastro, uno di loro ci ha corretto dicendo che le attuali politiche sono responsabili di tutto ciò e che non è un caso che il grosso del problema sia avvenuto dopo il 1991 quando le singole repubbliche post sovietiche hanno attuato politiche egoistiche e di propria convenienza relativamente alle acque dei fiumi immissari. “Fin quando c’era l’Urss”, sottolinea il capocantiere, “le esigenze del cotone, della pesca e degli altri prelievi idrici dai fiumi erano controllate da una autorità centrale che permetteva a tutte queste attività di non scomparire”. Non siamo in grado di fare un contraddittorio sul tema, ma in tutta la squadra è netto il giudizio sul fatto che si stava meglio prima. In tutto ciò è interessante anche il rivendicare la propria identità culturale karacalpaca che si sentiva più tutelata ai tempi dell’Unione Sovietica rispetto ad oggi. Non siamo qui per fare giornalismo d’inchiesta, semmai per raccontare la storia di un disastro ecologico con la speranza che in futuro non si ripeta nulla di simile. Resta interessante aver ascoltato le voci di alcuni abitanti del luogo, non giovani, che raccontano come il cotone sia stato più importante per l’economia locale rispetto al pesce del lago. L’acqua del lago, essendo salata, non era adatta ad irrigare e quindi era necessario usare quella del fiume, sottolinea un altro muratore del cantiere che ci ha salvato dal rimanere ore sul fondo del lago. Come spesso accade la verità sta nel mezzo visto che sono indiscutibili le responsabilità in epoca sovietica di coloro che scelsero di convertire la zona alla coltivazione del cotone, come del resto è innegabile che la disgregazione dell’Urss abbia portato ad enormi personalismi su questo tema da parte dei vari capi di stato delle repubbliche centroasiatiche. In ultimo aggiungiamoci che nella parte uzbeka sono stati trovati giacimenti di metano che con un eventuale ritorno dell’acqua sarebbero difficili da sfruttare.

Lasciata in modo definitivo Moynaq, riprendiamo la vecchia strada già percorsa nella giornata di ieri. Nella città di Kungirot, dove riprenderemo la strada verso nord, sostiamo per comprare provviste (tra cui giganteschi cocomeri e meloni) e fare quello che sarà l’ultimo rifornimento di metano in Uzbekistan. Una cinquantina di chilometri più avanti, ottimisti anche per il buon asfalto che stiamo percorrendo, decidiamo di fermarci per un ottimo pranzetto. Poi però la strada che percorriamo verso la frontiera kazaka peggiora drasticamente e presto riemerge quella che deve essere stata l’ultima asfaltatura di epoca sovietica. La media oraria scende a meno di quaranta chilometri ogni ora. Gli ultimi chilometri prima della dogana sono addirittura un alternarsi di terra battuta, sterrato e crateri di tutte le dimensioni. Puntiamo a salvaguardare il veicolo e arriviamo alla frontiera alle 17.30. In teoria saremmo la ventesima auto sul lato uzbeko, ma i doganieri ci fanno passare per primi poiché siamo turisti. Questa ulteriore attenzione si va ad aggiungere al non essere mai stati fermati in nessun posto di blocco della polizia nei giorni precedenti. È evidente che c’è un ordine ben chiaro di non disturbare in alcun modo i turisti presenti nel paese. Tutto questo facilita anche le operazioni doganali e in pochi minuti passiamo al lato kazako. Qui tutto avviene più lentamente, ma non per la burocrazia del paese post sovietico. Purtroppo bussiamo alla finestra dell’addetto all’importazione temporanea dell’auto proprio mentre inizia la pausa cena. Subito dopo comincia la pausa di coloro che ispezionano l’auto e tutto questo porta il tempo complessivo di attesa a oltre due ore. Sottoliniamo che neppure una valigia è stata aperta. Siamo nelle strade kazake poco dopo il tramonto e questo significa che dovremo per forza guidare anche di notte. I circa novanta chilometri che portano al paese di Beyneu, sulle sponde del Mar Caspio, sono peggio del previsto. La strada è in terra battuta, per fortuna con poche buche, ma la differenza la fanno i camion e la polvere che sollevano che rende impossibile vedere dove si va, soprattutto quando arriva il buio. Arriviamo a Beyneu a notte inoltrata e prendiamo il primo hotel con ristorante aperto che troviamo nei pressi della stazione ferroviaria. Proprio durante la cena partecipiamo involontariamente ad una festa con danze di gente del posto. Ci limitiamo a guardare, ma lo spettacolo è comunque molto interessante. I kazaki si confermano ad ogni occasione gente amante delle feste e non esitano mai nel lanciarsi in danze che coinvolgono anche i bambini. La stanchezza ben presto vince le nostre resistenze e siamo costretti ad abbandonare il piacevole osservatorio.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– Per quanto riguarda il Lago d’Aral qualcosa è cambiato. La parte kazaka è tornata a vivere grazie ad opere di ingegneria idraulica, ovvero una semplice diga. Ancora poco tempo e la parte nord del lago tornerà a bagnare il porto di Aralsk, la città che prende il nome dal lago. Per quanto riguarda la parte sud, quella uzbeka, siamo lontanissimi da una soluzione. Un buon segnale è il fatto che il nuovo presidente uzbeko abbia organizzato un incontro con gli altri “stan” per discutere del problema. I fiumi che alimentavano il lago passano anche attraverso gli stati non rivieraschi e un qualsiasi tentativo di tornare agli antichi splendori deve per forza passare da un accordo tra tutti.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Alessandra Cenci, Giulia Messina

Giorno 75 – Giornata karakalpaca

29 agosto 2018, Khiva-Moynaq (Lago d’Aral) – km. 524, tot. 26.149

Secondo e ultimo risveglio a Khiva. Dopo la colazione siamo in alcuni dei punti più caratteristici ed esterni alle mura per fotografare la nostra auto che nel giorno di ieri ha meritatamente riposato. Un gruppo di donne locali sente il desiderio di essere fotografata assieme a noi e alla Toyota Hilux, come del resto negli ultimi giorni molti bambini hanno manifestato la propria cordialità nei nostri confronti salutandoci con un “hello”.

Lasciamo definitivamente la bella città storica per dirigerci, dopo circa un’ora di viaggo, a Beruniy dove ad attenderci c’è di nuovo Gajrat con il quale avevamo condiviso l’ottimo pranzo di lunedì. Ci riforniamo di metano nella sua stazione, aperta negli ultimi anni grazie alla collaborazione con Fornovo. Sempre con il suo aiuto riusciamo, in un altro luogo di Beruniy, a fare un rabbocco di rarissimo gasolio per poter raggiungere il confine kazako senza problemi. Anche in questa occasione la qualità del gasolio lascia a desiderare, come del resto la pompa stessa apparentemente molto vecchia e semiabbandonata. Pure stavolta dobbiamo sorvolare e accettare la situazione visto che ora abbiamo la consapevolezza che con questi due pieni potremo arrivare al confine con la Russia.

La successiva meta di giornata è Nukus, capitale della Repubblica di Karakalpakstan, soggetto federato all’interno dello stato uzbeko. Qui pranziamo spendendo la modica cifra di poco più di un euro a testa. Nukus è una città abbastanza anonima e costruita nel corso del XX secolo con i classici palazzoni sovietici che almeno qui sono ornati e decorati con caratteristiche tipiche della cultura locale. In linea teorica non ci dovrebbe essere nulla di particolare che la possa differenziare dalle altre città delle stesse dimensioni costruite nel Novecento. In pratica qualcosa di particolare c’è: nel centro della molto pulita e ordinata città sorge un grande museo che ospita delle collezioni molto originali. Nel corso di molti anni il pittore e archeologo sovietico Igor Savickij ha raccolto  un elevato numero di opere di pittori avanguardisti sovietici, spesso artisti non in perfetta sintonia con le indicazioni politiche dello stato sovietico. Accumulò queste opere a Nukus dove le autorità locali permisero l’esposizione all’interno di un museo allestito per questo e per ospitare anche raccolte di oggetti legati alla storia del popolo e della cultura karacalpachi. Il risultato è che oggi ci sono persone che vengono a Nukus, davvero fuori da ogni itinerario turistico, appositamente per vedere questo luogo. Vedere, ma senza fotografare visto che gli zelanti addetti al museo chiedono quasi venti euro per il permesso di scattare foto e contestualmente obbligano alla consegna del cellulare. Il sequestro del telefono non ci era accaduto neppure nell’escursione in Corea del Nord a fine luglio. Molto interessanti le scene di vita quotidiana che avvengono nella piazza vicino al museo, con sposi che utilizzano questo scenario per le proprie foto di nozze e numerosi bambini che chiedono di fare selfie assieme ai turisti. Noi ribaltiamo la cosa e chiediamo agli entusiasti bambini karacalpaki di fare un selfie con noi. Loro accettano con grande gioia. A lato della piazza sventolano due enormi bandiere, quella uzbeka e quella karacalpaca, molto simili tra loro ma con una banda orizzontale di colore arancione invece che bianca per il soggetto politico locale. Una volta indipendente l’Uzbekistan faticò a rapportarsi con il Karakalpakastan. Sembra che nei primi anni ‘90 si sviluppò un movimento locale indipendentista, subito stroncato dalle autorità centrali. Di fatto l’aspetto somatico delle persone è di nuovo cambiato rispetto a Khiva o Samarcanda, stavolta prevale la somiglianza con i vicini kazaki.

Lasciamo Nukus e la sua gentilissima popolazione a metà pomeriggio per dirigersi verso Monyaq, circa ottanta chilometri al di fuori del nostro percorso, ma meta di grande interesse per il nostro viaggio. Qui arrivava la sponda del Lago di Aral prima della catastrofe ecologica che ha visto quello che fu il quarto lago più grande del mondo arretrare di centinaia di chilometri fino quasi a sparire. Appena usciti da Nukus attraversiamo per l’ultima volta l’Amu Darya, uno dei due emissari dell’Aral. Il fiume è praticamente asciutto visto il prelievo irriguo destinato alle piantagioni di cotone e frutta che rendono viva l’economia di questo territorio. La strada che ci porta a Monyak non è affatto una delle migliori percorse negli ultimi giorni, ma con qualche attenzione ci permette di arrivare nella cittadina un tempo lacustre poco prima del tramonto. La città ha ancora come simbolo un pesce, almeno questo si capisce dal grande monumento ad inizio paese. Entrando siamo rallentati da una marea di gente che si sta recando nello stadio centrale per una festa cittadina della quale non abbiamo compreso il significato. Forse una specie di patrono locale, ci sembra di capire dalla conversazione con una persona del luogo.

Prima del calare della notte facciamo in tempo a scorgere dall’alto il cimitero di barche che si trova nel pressi del vecchio porto. Decidiamo di rinviare la visita al mattino di domani vista l’ora non idonea per avventurarsi nel greto asciutto del lago. Ceniamo e dormiamo in delle yurte in riva all’ex lago. Curiosa l’iniziativa di una famiglia del luogo che ha costruito queste tende proprio attorno all’ex faro del porto e che riesce a noleggiarle ai pochi turisti che vengono a Monyak. Grazie alla quasi assenza di pubblica illuminazione possiamo godere di un cielo stellato stupendo arricchito anche dal sorgere della luna direttamente da quello che resta del lago.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– Nella parte nord del lago di Aral le autorità kazake sono riuscite, grazie alla costruzione di una diga, a riportare il livello della parte settentrionale del lago molto vicino ai livelli del passato. Anche in Uzbekistan il nuovo presidente dimostra interesse sull’argomento, nonostante qualsiasi tipo di progetto per invertire la tendenza sia ancora in alto mare.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Alessandra Cenci, Giulia Messina